SanV#1
spedito da: Andrea
Data: venerdì, 14 febbraio 2014 - ore 20:46
"Andiamo all'Autogrill, è là che voglio andare" disse lei, appena entrata in macchina, mentre fissava il paesaggio dorato delle colline davanti a sè, con quel suo profilo soffice eppure fiero.
"Come scusa?" chiese lui, al solito rapito e succube di lei, per ogni espressione e parola e gesto fatto.
Lei si girò, i suoi capelli lisci e rapiti dalla gravità che le incorniciavano quel viso così delicato, una calamita di intenti e soprusi alla realtà dei fatti da parte dell'immaginazione. E sorrise, che era il gesto più disonesto che potesse fare, compiuto con la solita ingenuità e naturalezza che come sempre gli strappava via un po' di sè, a piccoli pezzi, per poi non lasciare più niente in un giorno lontano.
Lui mise in moto, disse:"Ok" e tentò di rispondere a quel sorriso senza peraltro insidiarne il primato.
Guidarono senza parlare molto, poche chiacchiere e l'aria di singolarità che aleggiava là in mezzo, tra loro, in quell'abitacolo, per quella richiesta strana, come altre che l'avevano colpito di lei, ancora una volta a non banalizzare niente, neanche quel giorno di metà febbraio che, per ragioni ai più ignote, era divenuto chissà quando, celebrazione del sentimento supremo, quello che tra loro non era ancora e mai sarebbe stato davvero, fino in fondo.
Parcheggiarono in quello spazio di catrame che lui frequentava per lavoro così spesso e che adesso invece diventava una specie apocrifa di tappeto verso un pezzo di tempo che sarebbe stato di felicità, pura e a gocce, emozioni che sarebbero evaporate nel futuro e avrebbero reso il suo cuore arido e senza gioia, come la roccia di un deserto dimenticato.
Lei, al solito, dava l'impressione di galleggiare nell'aria e non di camminare davvero, come se le facezie terrene fossero al di là del suo interesse, in quella perenna sospensione che non avrebbe costituito solide fondamenta. Eppure catturava, prendeva come un uncino nelle carni, conficcato così in fondo che faceva un male cane cercare di estrarlo. Così lui la seguì, in mezzo agli scaffali illuminati con quella luce al neon fredda e anonima, mentre il suo incedere cercava di riscaldare l'aria. Lei osservava distrattamente confezioni di biscotti e dolciumi e cioccolate, alternando sorrisi persi chissà dove a rapidi gesti con le dita come se volesse afferrare qualcosa senza mai prendere davvero. La signora dietro la cassa li osservava, piatta come chi non ha più nulla da chiedere a nessuno, nella sua casacca beige e rossa, un'accoppiata di colori assolutamente priva di ogni memoria.
"Allora, che ti prendo?" chiese lui più che altro per sentire il suono della sua voce, annegata nel troppo silenzio dei suoi pensieri di una gloria effimera che l'avrebbe beffato con una cattiveria ingiustificata.
"Non saprei..." disse lei, "...un panino, una coca, un caffè..., non lo so, tu che dici?"
Fece spallucce, tutto andava bene, bastava orbitare nella sua sfera. Disse:"Ok, ci penso io" e andò verso il bancone ad ordinare. Cercò di non perdere il contatto visivo anche mentre parlò con la tipa della cassa e ordinò i panini e le coche e il caffè. La paura era quella di vederla scomparire da un momento all'altro, in maniera infantile e ingiustificata. Ma la debolezza dell'uomo sta proprio nel non saper prevedere l'assurdo.
Così mangiarono mentre qualche neon ronzava e le luci sembravano diventare sempre più itteriche. Fuori il buio era calato come un drappo, nel quotidiano esercizio di celare chissà quali nefandezze ma loro erano concreti, potenti, come una stella di neutroni, densi da catturare qualunque forza ed energia.
Lei sorrideva, come sempre, per dettare il ritmo e a lui bastava, perchè il percorso era in piedi da tempo ormai, eppure lui non smetteva di imparare emozioni, decollare verso spazi nuovi, tempi dilatati verso un'invincibilità che l'avrebbe condannato nel futuro ad una coerenza che nulla aveva a che fare con ciò che stava accadendo quella sera.
"Dai andiamo" disse lei indicando la porta con la testa, lasciando il panino e la coca a metà.
Lui annuì, disse:"Va bene" e lasciò anche lui cibo e bevande sul tavolino.
Uscirono fuori, contro il muro della notte, forti e allo stesso tempo fragili come opere di cristallo create da un Dio artigiano e distratto. Lui si mise le mani in tasca come ogni volta che le avrebbe voluto utilizzare per altro. Lei invece si avvolse nel suo scialle enorme col quale andava girando perchè, diceva, odiava giacconi e similari. Si accese la sua sigaretta, sbuffando fumo in equilibrio sul bordo tagliente del destino mentre un vento freddo soffiava per schiaffeggiare i volti e le storie. Ma lui assorbiva e fissava lei, che ancora non aveva neanche provato un abbraccio come si deve, figuriamoci un bacio. Quello sarebbe arrivato molto più in là, in un futuro che li avrebbe visti diversi e distolti da tutto, come pedine di una scacchiera. E le luci della montagna ardevano in lontananza come fuochi fatui.
L'amore gioca con le vite degli esseri umani e usa, in combutta spesso disonesta e cattiva, il destino e le ambizioni come manovali di un gioco che non si riesce proprio a capire perchè debba essere perpetrato con tale sistematicità. Poi però, qualcuno quele partite le gioca bene e le vince e allora chi non sa stare in campo non può prendersela con nessuno se non con se stesso.
Questo è il mio primo omaggio per questa celebrazione di cui prendo solo lo spunto positivo e assolutamente non banalizzato, così come si potrebbe fare a Natale per l'amore e il rispetto tra esseri umani. Un modo per fermarci e riflettere, come sempre, una volta in più e lasciare che la fantasia ci sorregga, in questo andare spesso distratto e senza una vera e propria meta.
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